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Storia di Albino, gorilla bianco e mingherlino

di

Franz


Viveva in una radura un giovane gorilla bianco e mingherlino che si chiamava Albino. Per quelli della sua razza era una vergogna che lui non fosse di colore grigio-bruno e, ad ogni suo passaggio, molti di loro ghignavano nascosti tra le basse fronde della radura. Il padre, poi, aveva il timore che non sviluppasse un corpo simile al suo. E sì che lui era il più grosso e il più forte di tutta la tribù.
Anche i suoi coetanei lo canzonavano e si divertivano a fargli scherzi di ogni genere: ad esempio, quando Albino si arrampicava sugli alberi, quello sopra di lui faceva il finto cortese e gli passava come appiglio un ramo spezzato; lui, fiducioso, si aggrappava e così cadeva a terra.
Ogni sera, Albino tornava a casa ammaccato e desolato, e veniva consolato dalla madre. Il padre, invece, lo rimproverava e gli diceva che la colpa era sua, che non sapeva reagire. Un pomeriggio lo portò nel folto della foresta: aveva l'intenzione di farlo diventare un vero gorilla.
- Per prima cosa - disse il padre - scaldare i muscoli! - e saltando sulle gambe posteriori, con i pugni percosse l'ampio torace a mo' di tamburo. Albino lo imitò, ma dopo due o tre colpi perse l'equilibrio e cadde all'indietro.
- No, no, no!! - gridò il padre, che per non vedere ripetersi quella scena, passò agli esercizi di arrampicamento.
- L'importante - spiegò il padre - è lo slancio - e aggrappandosi con mani e piedi a rami, liane e cavità del tronco, raggiunse veloce la cima di un albero. Albino rimase lì accovacciato a guardare con occhi languidi, pensando che mai sarebbe riuscito a ripetere quell'impeccabile esempio di arrampicamento; da lassù il padre gridò:
- Avanti, muoviti! - e lui, allargando le narici del suo nasino largo e piatto, strinse le labbra e, facendosi forza, comincio` a salire.
Quel tronco pareva non finire mai e Albino, già a poco più di un terzo di strada, sentiva le membra stanche.
- Forza con quelle braccia! - gridò il padre, ma Albino capì che le forze sarebbero, di lì a poco, venute meno e, in un ultimo sforzo, si chiese: - Ma perché sto qui a fare tutto ciò? - e in quel mentre mancò la presa e iniziò a scivolare giù dal tronco.
Quella sera la madre vide il triste rientro del figlio, che stravolto le cadde tra le braccia. Da quella volta il padre decise che lo avrebbe portato ogni pomeriggio nella foresta ad allenarsi.
Ma Albino non progrediva e più il padre insisteva più lui sentiva crescere in sé la paura che mai sarebbe riuscito ad arrivare in cima ad un albero: cosa di vitale importanza per i gorilla, che si cibano di frutti e di foglie. E così Albino si disperò fino a che neppure le carezze della madre gli furono di sollievo.
Intanto era diventato ancora più gracile e i giochi e i divertimenti non costituivano più la principale occupazione della sua mente, che, afflitta, meditava gesti inconsulti. Pensò di fuggire, ma la foresta gli faceva paura e ogni volta che provava ad addentrarsi, al primo rumore, di corsa faceva ritorno nella radura.
Venne un giorno che Albino si inoltrò senza accorgersene nella foresta. Nella sua testa i pensieri si accavallavano e divennero sempre più fitti, fino a che non gli balenò in mente la stessa domanda di quando era andato la prima volta nella foresta con il padre: ma perché sto qui a pensare a tutto ciò? E come d'incanto si sentì libero e alleggerito da ogni pensiero, e prese a camminare allegro, quando lì attorno fu tutto un levarsi di grida di animali.
Albino udì alle sue spalle un ruggito. Un leopardo stava balzando su di lui.
Subito Albino salì sull'albero più vicino e iniziò ad arrampicarsi veloce; il leopardo gli era dietro, ma non trovando buoni appigli, si fermò a metà strada. Trafelato e con il cuore in gola, Albino raggiunse l'esile cima.
Un vento leggero mosse la punta dell'albero. Albino non era mai stato così in alto e avvertì un senso di vertigine, con un brivido, lungo la schiena; avrebbe voluto scendere, ma il leopardo si era sistemato ai piedi della pianta.
Tutto era accaduto in così poco tempo, che solo allora Albino si accorse di essersi perso, ma non gli importò più di tanto, perché era felice e contento di aver raggiunto con le proprie forze la sua prima cima. Adesso guardava estasiato un panorama mai visto: la grande distesa verde della foresta e all'orizzonte il sole rosso, che tramontando, ritagliava il profilo dei monti a lui sconosciuti.
Calò la notte. La foresta si fece silenziosa. Il buio avvolse ogni cosa. Albino sentì un battito sulla spalla, poi un altro e qualcosa di fresco cominciò a picchiettare forte sulla sua testa: erano gocce di pioggia. Una pioggia torrenziale che lo inzuppò e che gli fece venire la nostalgia di casa.
Albino rimase desto, sotto l'acqua, quasi tutta la notte e solo verso l'alba, quando smise di piovere, si mise a sonnecchiare; poi, al sorgere del sole, i raggi caldi lo svegliarono e asciugarono il suo pelo.
Il leopardo se n'era andato e Albino, sceso a terra, si accorse di aver perso l'orientamento. Il giorno prima non aveva fatto molta strada e certo che, in un modo o nell'altro, avrebbe raggiunto casa, scelse la direzione che più lo ispirava. Camminò l'intera giornata, senza vedere radura o albero familiare. E così fu per molti giorni.
Passarono mesi e Albino continuava a vagare per la foresta, mentre la speranza di ritrovare casa si faceva sempre più debole, fino a che non si spense del tutto.
Nel frattempo, Albino era cresciuto; il doversi procurare cibo e il doversi difendere da animali ed intemperie, aveva provocato in lui uno sviluppo davvero speciale. Non solo si era irrobustito nei muscoli, ma anche nelle ossa. Albino, però, non era tarchiato come quelli della sua razza, e neppure camminava a quattrozampe: lui era alto e stava ritto di spalle e di schiena, e correva per la foresta come un atleta. Saliva, scendeva, passava agilmente da un tronco all'altro e le frange del suo pelo, muovendosi al vento, lo facevano somigliare ad un pistolero del Far west. Certo, perché Albino aveva maturato particolare scaltrezza nell'affrontare ogni specie di animale, feroce o velenosa che fosse: non c'era leone, serpente, coccodrillo o vedova nera che non uscisse sconfitto o gabbato da ogni contesa. Ma Albino non era soltanto un abile guerriero, aveva un cuore che pulsava generoso e si era fatto numerosi amici.
- Come mai sei così triste? - gli domandò un giorno il cuculo dal ciuffo, suo grande amico.
- Oggi, per la mia razza, comincia la stagione degli amori ed io mi sento molto solo - rispose Albino.
- Senti - disse il cuculo - poco tempo fa, mentre sorvolavo le montagne, mi parve di scorgere tra le piante un essere simile a te. Perché non vai da quelle parti a dare un'occhiata? -
Albino si mosse alla volta delle montagne.
Passarono alcuni giorni, ma di esseri grossi e scuri non se ne vide neppure l'ombra. Egli continuò a salire e un mattino giunse in una radura nel cui mezzo c'era un albero di bacche.
Penso` di concedersi un'abbondante colazione, ma, arrampicandosi schiacciò inavvertitamente con la mano un nido di uccelli; dentro i piccoli stridettero per lo spavento. Subito Albino cercò di porre rimedio ai danni, ma non passò molto che gli si abbatté sul capo una pioggia di dolorosissime beccate: la madre dei piccoli, uno sparviero femmina, si era avvinghiata alla sua testa, infierendo su di lui.
Albino si buttò giù dall'albero e corse da ogni parte, ma lo sparviero inferocito non ne voleva sapere di andarsene e passava a beccargli le mani, che cercavano di staccarlo dal capo. Poi, ad un tratto, l'uccello lasciò la presa, ritenendo che fosse stata inflitta giusta punizione. Albino si appoggiò, esausto e dolente ad un tronco.
- Certo che con le femmine ci sai proprio fare! - disse una voce.
Albino aveva la vista ancora un po' annebbiata e non riuscì a capire chi potesse aver parlato: avanti, tra le foglie, distinse solo una sagoma chiara e distesa per il lungo. Udì una dolce risata e si stropicciò le palpebre con le dita e, quando la vista fu nitida, restò senza parole: su un grosso e basso ramo, si dondolava una femmina di gorilla. Anche lei aveva il pelo bianco.
Un po' di brezza mosse le fronde degli alberi e i due stavano già a rincorrersi per il bosco.
Passò la stagione degli amori; la famiglia non tardò a formarsi e a diventare numerosa e spesso cambiava dimora, spostandosi per la grande foresta. I piccoli, tutti bianchi, crescevano sani e robusti. Un giorno, uno di loro, in giro a prelustrare i nuovi paraggi venne richiamato da un grido.
Seguendone la provenienza, il piccolo arrivò ad uno strapiombo: lì un gorilla, piccolo come lui, ma scuro di pelo, pendeva aggrappato ad una radice: ancora poco e avrebbe lasciato la presa.
Il piccolo fu preso dal panico e si mise a gridare in modo così forte che riuscì a farsi udire dal padre. Albino accorse sul posto e spezzato un ramo da un albero lo porse al piccolo; guardò quei giovani occhi che esprimevano grande difficoltà e, per un attimo, gli parve di rivedere quelli suoi di un tempo. Un ultimo sforzo e il piccolo si aggrappò al ramo.
Si udì come un rullare di tamburi. Giù dallo strapiombo, in una piana, decine di gorilla piccoli e grandi, giovani e vecchi si battevano il petto in segno di esultanza per l'avvenuto salvataggio. Era la sua tribù. Non solo Albino aveva ritrovato se stesso, ma la tribù aveva ritrovato lui.
Albino e la sua famiglia furono ben accolti dai vecchi e nuovi compagni e vissero per sempre con loro, e se vi capita di andare da quelle parti e vedere gorilla di colore nocciola, marrone o marroncino potete essere sicuri che quelli sono i discendenti della tribù di Albino.

(Tratta da "Il Giornalino - Primo Conto" della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza)


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