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IL CAVALIERE ERRANTE

di

Stefano

 

La storia narra di un prode eroe, senza macchia e senza paura, che con il fido destriero Fulmine del Cielo Grigio e il suo stalliere Rorò, errava in cerca di fortuna e di avventure nelle contee del Ducato Duc de Berry.

La notte stava ormai coprendo le ultime sfumature azzurre del cielo e Rorò trascinava ormai il suo stanco passo tra i ruvidi ciotoli della stradella che portava alla Valle dell'Arcobaleno. Il cammino era stato lungo, due giorni e due notti di pesante marcia avevano segnato i lunghi e cupi volti dei nostri avventurieri. Quella notte nelle loro menti non v'erano sogni di salvare nobil donzelle in difficoltà, di sconfiggere terribili draghi alati; ma solo di potersi coricare in un comodo giaciglio di paglia, per poter ritemprare il loro stanco corpo e la loro mente.
Le luci del villaggio erano lì e illuminavano le imponenti torri del castello. Le fiaccole scintillavano indiavolate fino a perdersi nell'oscurità. La luna non respirava, avvolta da minacciose nubi che facevano temere qual orribile sventura.
- Fermiamoci un pò qui! Il cavallo ha bisogno di riposare! - tuonò staccato il cavaliere, e così, abbandonato a terra il pesante fardello cinto sulle spalle, si coricò vicino al fedele Rorò sotto ai curvirami di una vecchia quercia. A Rorò bastava uno sguardo per capire il suo padrone, e si accorse in un batter d'occhio che la spavalderia e la sicurezza che accompagnavano il suo compagno erano sparite, lasciando un velo di malinconia e tristezza nei suoi occhi.
- Cos'hai Sir Leopold, cos'é che turba il tuo volto, cosa incupisce la tua anima? Soffro a vederti così!!
- Non capiresti Rorò - e intanto il cavaliere ruotava nel suo dito un nobile ma opaco anello.
- Ti prego parliamone - rispose Rorò - abbiamo sempre diviso tutto, le gioie, le vittorie e anche i dolori più grandi.
- Non capiresti Rorò, tu non sai cosa è l'amore, sentire i piedi che si alzano da terra; le tue dita che s'intrecciano con altre dita; il profumo dei capelli; la voglia di vivere. No Rorò, non lo potrai mai capire.
- Mah, maestro -
- Vedi quest'anello. Prima ch'io fossi nominato cavaliere per spada del Gran Sovrano di Bel Town vivevo in questa valle, e come te ero scudero del Re McLeonard. Non conoscevo ancora l'odio e la battaglia e il mio cuore sapeva amare, battere forte forte; emozionarsi. Dividevo tutto con Alaissa, una donzella mora, e i suoi occhi, i suoi grandi occhi - una lacrima scendeva sulla ruvida pelle del Cavaliere.
Rorò, commosso dalla triste vicenda, passò il suo fazzoletto sulle fredde gote del suo eroe. - Continua ti prego!
- I suoi grandi occhi... i suoi occhi erano scuri come l'ebano, il suo sorriso era contagioso...ma adesso in me vive solo il ricordo e questo vecchio anello. Ci fu la guerra, e con il suo nero manto coprì tutto; non ebbi nemmeno il tempo di salutarla, e partii al seguito del mio cavaliere e della promessa di eterna fedeltà che gli feci. Da quel giorno non la vidi più e il suo ricordo addolora sempre più il mio affaticato corpo. Ma lei vive in me, nelle stelle che guidano il nostro camminare, nello schioppettare di questo falò che arde sui nostri visi, ma lei... chissà dov'é, se mi pensa ancora, se... Le luci che tu vedi là in fondo una volta mi erano amiche, tra quelle mura passai la mia giovinezza. Ormai la mia spada non brilla più, il mio cavallo ha bruciato miglia e miglia di terra, sono vuoto e stanco. -
E alzandosi di scatto raccogliendo le poche forze rimaste indicò il paese - Spegni il fuoco, slega Fulmine, voglio raggiungere la città prima che il sole si svegli.

I tre partirono e per ore il silenzio riempì la vallata, nemmeno le cicale disturbarono il loro cammino. Entrati nelle mura, la città appariva ancora spenta. Il cigolio di una banderuola agitata dal vento accompagnò la timida frase di Rorò.
- Maestro, a volte il silenzio è amico, ti fa cercare dentro tutte le risposte ai tuoi dubbi, alle tue domande, ti svuota.
- Fermiamoci in questa locanda, dai da mangiare a Fulmine - fu questa la risposta distratta ad una frase che lo colpì veramente al cuore.
"La Gabbianella d'Oro" era la scritta che capeggiava sulla porta della locanda. I due furono investiti da un caldo odore di cinghiale affumicato. Nel camino brillavano ancora dei tizzoni di cenere, una grossa montagna di grossi ceppi. Una coppia di viandanti dormiva sul bancone di un imponente tavolone di legno sommersi da bicchieri e calici vuoti.
- Buondì Messeri - li accolse da dietro al banco un enorme signore che una pezza era intento ad asciugare dei vassoi.
- Buongiorno a lei. Siamo due viandanti che cercano ristoro e riposo per questo giorno. -
E così, saliti da una scala si adagiarono su dei comodi e gonfi giacigli. Mentre Rorò si perdeva tra i sogni del suo dolce riposo, il Cavaliere se stava lì, sdraiato con il pensiero per una vita agitata, un amore perso e tanti rimorsi per tutti i valori che si era fatto lasciare sotto al naso. Pensava alle lunghe passeggiate della sua giovane età con Alaissa, le corse, i giochi in riva al grande Lago Argentato e piangeva. Piangeva e ripercorreva con la mente che questa notte lo avevano ospitato come tanti anni fa. Ma ormai era cambiato, non era più riscito a provare quelle stesse emozioni, troppi combattimenti, troppa strada gli avevano impietrito il suo stanco cuore.

Raccolti dall'ospitale stanza tutti i loro fardelli, Rorò e Leopard andarono nel salone principale della locanda per rifocillarsi prima di continuare il loro lungo viaggio.
- Prenda questo pane - lo invitò il paffuto locandiere. Le larghe vetrate della locanda erano appannate dal vapore dellíacqua scaldata dalla nera stufetta. Due bambini disegnavano con le loro dita quei vetri; un fiore, una casa, il papà, si guardavano, si fermavano e ridevano.
- Anthony, Mary Ann, venite qua! Aiutate il Papà! - tuonò la roca voce del padrone della locanda.
Quei visini spaventati si avvicinarono al padre rattristiti per la fine del povero gioco. Il monotono tintinnio dei cucchiai continuo per alcuni minuti fino a quando una gentile voce femminile dal piano sopra risvegliò tutti i commensali.
- Mary, Anthony, venite dalla mamma, è tardi dobbiamo andare dalla maestra Rothmayer.
Leopold lasciò di colpo il tozzo di pane e di scatto si alzò. Dalle scale una donna stava richiamando i suoi pargoletti. I lunghi capelli scuri gli cadevano dolcemente sulle spalle. Si girò e per un attimo il suo sguardo incrociò quello del Cavaliere. I suoi occhi erano scuri come l'ebano. In quell'attimo per i due il mondo si fermò; i loro occhi e i loro pensieri ripercorso in pochi secondi una vita intera.
Leopold si destò all'improvviso, posò sul tavolo una sacca con dei talleri d'argento e imboccò di corsa l'uscita con l'enorme sorpresa di Rorò. Il fedele "segugio" sciolse il cavallo e seguì il suo Messere sulla strada impolverata.
Lo fermò ansimando. - Ma maestro, lei...
- Rorò
- Maestro torna!
- Rorò, a volte il silenzio è amico, ti fa cercare dentro tutte le risposte ai tuoi dubbi, alle tue domande, ti svuota, ricordi???
- Ma maestro, tu...
- Rorò, oggi ho ritrovato la gioia, la nostra avventura non è finita, la mia spada e la mia forza sono tornate a splendere
- Ma l'anello?
- Lo vedi il sole che sorge di fronte a noi? Quando lo avremo superato, il nostro cammino sarà finito, non so cosa ci aspetterà lungo questa ripida via; tu Rorò mi vuoi ancora seguire?
I due per la prima volta si abbracciarono come veri amici, la loro ombra si allungava sempre più sulla via baciata dal sole.

L'anello era ancora sul freddo bancone della locanda, una piccola mano lo prese e lo strinse nel pugno.
- Mamma perchè piangi? - chiese ingenuamente la piccola Mary Ann.
- Niente piccola mia, ho solo sognato.
- Tieni mamma, questo è tuo. - e la bambina le infilò al dito un anello che mai fino ad oggi aveva brillato così.


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